Un luogo dove gli anziani potevano appartarsi per leggere il giornale, per chiacchierare, per giocare a carte lontani dal frastuono della città? Certo, questo era l’obiettivo. Ma se poi queste buone intenzioni avessero portato a un ghetto, a un luogo dove gli anziani, già isolati dal giro dei giovani, e spesso anche dalla famiglia, si fossero sentiti ancor più emarginati? Così decidemmo di interpellare i bambini, quelli più lontani, come generazione, ma quelli di cui i vecchi desiderano maggiormente la vicinanza. Andammo in tutte le scuole, elementari e medie, di Omegna, Gravellona e Val Strona, che ci aprirono le porte con naturalezza, conosciuto lo scopo, anche se la nostra associazione era soltanto ai suoi albori.
Con il pretesto di chiedere consigli per il nostro progetto cercammo soprattutto di parlare di vecchiaia, dei sentimenti che ci legano alle persone e del vuoto che il distacco ci lascerà il giorno che le perderemo. Ma la vecchiaia è tanto lontana dai pensieri di un bambino che, le nostre, risultavano soltanto parole. Così decidemmo di arrivare all’obiettivo per gradi, partendo da un esempio: “Chissà quanti vecchi oggetti ci sono nella vostra casa che vi sono cari, ma non ve ne rendete conto. Ve ne renderete conto soltanto se dovrete perderli. Bene, noi vi aiutiamo a comprenderne il valore chiedendovi di regalarceli. Andate a casa, scegliete un vecchio oggetto che vi è caro e dite ai vostri genitori «lo debbo portare a scuola, serve alla Pro Senectute per costruire un luogo d’incontro per gli anziani». Un oggetto, uno soltanto, ma che vi sia caro”.
Oltre a questo chiedemmo delle idee e dei disegni. Arrivarono le une e gli altri ma, sorprendentemente, arrivarono migliaia di oggetti: alcuni di valore, altri di minor valore, ma chiaramente sottratti agli sguardi affezionati di una famiglia. Quasi nessuno buttato lì come si fa pensando a una discarica. Fu un’esperienza tra le più emozionanti. Per non svilire un’iniziativa che, a tante famiglie, era costata un sacrificio, decidemmo di farla almeno rendere il massimo possibile. Assegnammo ai poeti dialettali del Cusio il compito di comporre una lirica in onore di quegli oggetti, soprattutto di quelli che popolavano, allora più di oggi, i ricordi nostalgici di un mondo che non c’è più. Trascritte in bella calligrafia, con penna e inchiostro, su eleganti pergamene, le poesie furono legate con un nastro all’oggetto che le aveva ispirate e, assieme a questo, messe all’asta. In un prestigioso albergo di Pallanza, per tre sere, dopo che un attore aveva recitato una poesia, il banditore offriva al pubblico incanto l’emozione suscitata da quella lettura, assieme all’oggetto che l’aveva ispirata: poteva essere una lanterna o un bastone da passeggio, un tagliere o un filarello, un macinino da caffè o una medaglia della grande guerra. E lì, per la prima volta, sperimentammo il valore dell’emozione, che fu poi centrale nella nostra comunicazione: quanto più modesta era la composizione, tanto minore era la cifra battuta. Viceversa, per le belle poesie emozionanti l’offerta saliva su, anche se l’oggetto che le accompagnava era tra i più poveri della partita.
Il ricavato di quelle aste piuttosto originali costituì il primo mattone del Centro d’Incontro che cominciava a profilarsi come sogno realizzabile.